Il nome glielo hanno dato due ragazze, una sera di tanti anni fa, dopo avere visto un film, “Ciske storia di un bambino”. «La vera verità è che non è un nome d’arte. Due amiche hanno visto il film la sera prima – la storia di un bambino sfigatissimo – e poi hanno cominciato a chiamarmi così». Da allora gli si è cucito addosso e oggi lo conoscono tutti come Cisky MCK. Il rapper ha talento e da sempre due grandi passioni: la musica e il teatro. Suona, compone e scrive testi appena può. «Ai tempi ho vinto anche una borsa di studio per fare l’accademia teatrale».
Cisky MCK è un rapper e attore.… un “rappattore”. Scrivere gli piace, gli viene bene e scrivendo riesce a dire le cose che prova, a raccontare come si sente, le cose in cui crede. «Arrivi a 40 anni e capisci che se invece di arrabbiarti col mondo ti fossi rimboccato le maniche forse sarebbe andata diversamente». Ma restare concentrati è difficile. «Studiavo di giorno ma poi la notte mi facevo risucchiare dal buco nero della periferia. In sostanza, mi sbattevo le porte in faccia da solo».
Cisky vive al Corvetto. In realtà è nato in Barona. «Io dico sempre: dalla padella alla brace! Quando sei un ragazzino non è facile vivere in periferia». È arrivato in questo quartiere quando aveva 12 anni e Corvetto è casa. «Abito qui dal 1990, 18 gennaio. Era il compleanno di mio padre, era appena scoppiata la guerra nel Golfo e dulcis in fundo quel giorno mia madre decise di andarsene». In quegli anni sta sempre in giro. «Quando in casa stai male, quella fuori diventa la tua vera famiglia». Sono gli anni delle regole non scritte del quartiere, quelle che da ragazzo consideri normali e giuste perché tutti intorno a te vivono così e quelli sono sostanzialmente i tuoi unici elementi di riferimento nel mondo. «Hai sempre l’impressione che gli altri intorno a te ti vogliano mangiare. E tu cosa fai? Ti incazzi e fai la “street escalation”. Non sei un criminale, ma sei arrabbiato col mondo, e pensi che ti debba qualcosa, perché hai sofferto».
Gli anni trascorsi a fare cazzate, non necessariamente importanti, si sono sommati e un certo punto i reati commessi devono essere scontati. «Il mio avvocato mi diceva sempre: guarda che la macchina della giustizia è lenta ma prima o poi arriva». Il tempo passato in carcere lui lo racconta, anche, come una grande occasione. «Chi è che ha 24 ore al giorno libere? Mi sono iscritto a scuola, ho letto, ho imparato tante cose». Tante ore a disposizione da dedicare alle sole passioni. Buttarlo via sarebbe da stupidi e lui non lo è. «Paradossalmente in carcere, se sei uno che pensa, invece di stare sdraiato a incazzarti, inizi a usare il tempo utilmente». Ne esce con diversi progetti pronti, scritti dove poteva e con qualsiasi mezzo ci fosse a disposizione.
Adesso cammina libero, «ma ricucire una vita autodistrutta è difficile.» Ci prova senza sosta, «però ho tanti muri davanti. Trovare un lavoro, ad esempio, è difficile. Un po’ per l’età e un po’ per la fedina penale.» Al Corvetto è tornato a vivere da un paio d’anni, con sua moglie. «Più che altro sto a casa, in studio. Purtroppo in strada si è sempre soggetti a un’influenza negativa…». Oggi difende l’idea che l’educazione, il rispetto, la lealtà e la chiarezza vengano prima di tutto. «Mi incazzo anche con gli altri rapper che diffondono l’idea che sia tutto valido e lecito e senza nemmeno averlo vissuto. Ci vogliono dei pilastri e bisogna impegnarsi nelle cose. Ci vogliono delle fondamenta soprattutto nei rapporti personali. Ho rimosso molti valori per anni e ora non lo faccio più».