«Variegato, selvaggio e catartico. Sono tre parole che abbiamo sentito venendo qua, camminando per la strada e attraversando il parchetto». Questi sono i termini con cui “Il Tram del Giambellino” – gruppo di Teatro dell’Oppresso – sceglie di raccontare il quartiere dove tre anni fa è iniziata la sua bella storia. L’idea è nata da Arianna e Giuseppe – abitanti e membri della compagnia Sbandattori – che hanno sentito l’esigenza, un po’ anche per questioni pratiche, di lavorare in quest’area di Milano. Grazie a Chiara, vicina di casa e amica, hanno scoperto l’Associazione Laboratorio di quartiere Giambellino-Lorenteggio che promuove le assemblee di quartiere, occasioni in cui i cittadini possono proporre e scegliere le attività da realizzare presso la Casetta Verde, sede dell’associazione.
Il Teatro dell’Oppresso (Teatro do Oprimido) è un metodo ideato dal brasiliano Augusto Boal e ispirato alle idee di Paulo Freire, illustrate ne La pedagogia degli oppressi. Nasce negli anni ’60 come mezzo per rendere coscienti le persone rispetto ai conflitti sociali, e oggi continua a rappresentare le contraddizioni della nostra realtà. «Si può realizzare in Giambellino-Lorenteggio come altrove, spesso alcuni territori – chiamiamoli di periferia – sono più adatti perché è un teatro che lavora dove disagio e problemi sono diffusi. Questi quartieri offrono spunti e sfide che vengono messi in scena per far dialogare le parti che vivono le situazioni di oppressione, facendo intervenire direttamente gli spettatori durante la rappresentazione. Si chiama teatro-forum. È un lavoro di immedesimazione molto utile, il vedere da dentro certe situazioni ti fa cambiare prospettiva». Hanno coniato lo slogan far “esplodere lo spettro” perché a volte il nome teatro dell’oppresso può spaventare.
«Abbiamo messo in scena alcuni problemi specifici di questo territorio. La questione della casa ad esempio, che in Giambellino-Lorenteggio è molto sentita». La casa, il rapporto con chi si ritrova ad occupare un appartamento, le relazioni con i vicini, gli stereotipi, sono temi su cui il gruppo lavora. «Il Teatro dell’Oppresso è lo strumento di fondo: la cultura, l’incontro, il confronto servono a tirar fuori idee, proposte, concetti in un quartiere di estremo degrado e fragilità. In città manca l’ABC per mettersi in relazione, ti incroci e ti guardi in cagnesco. In queste situazioni, dove non c’è biglietto, non c’è appartenenza, vedi le persone che si divertono e fanno delle cose e ti viene voglia di unirti».
La Casetta Verde è un luogo di aggregazione, un’occasione per chi abita in quartiere. «Qui ci ritroviamo ogni settimana e abbiamo messo in scena alcuni spettacoli. I protagonisti non siamo noi, ma gli spettatori che partecipano e costruiscono insieme a noi lo spettacolo». Ed è proprio nello spettacolo finale che – grazie al dialogo – avviene la trasformazione come gruppo e collettività. «Ecco quello che cerchiamo di fare: portare i nostri spettacoli nei contesti di vita quotidiana, la piazza, il circolo, cerchiamo sempre nuovi spazi. In Giambellino-Lorenteggio ci piacerebbe entrare nei cortili delle case popolari, come nell’esperienza di Scendi c’è il Cinema, il cinema sotto casa. Non si danno soluzioni, si lavora con le persone, tant’è che quando lo abbiamo fatto nei cortili di Corvetto gli abitanti pensavano fosse un’assemblea. Una cosa che ci stupisce sempre? Quanto si riesca a coinvolgere le persone in questa modalità, le più diverse. L’obiettivo? Allargare questa esperienza di dialogo e confronto – nell’utopia – a macchia d’olio».