«Vorrei che all’orizzonte si presentasse qualcuno che capisca: che per noi, tutto quello che c’è qua dentro, nei cassetti grossi e piccoli, ha una funzione… quasi sacra. Dopo 102 anni, non si può togliere un pezzo senza rovinare tutto il contesto». Il signor Luigi Cambieri in quartiere lo conoscevano tutti come “Il Bonvini”. «Io sono l’unico, in Lombardia, che quando mi sono sposato, invece di dare il cognome a mia moglie, è stata lei a darmi il suo», scherzava in dialetto milanese con chi lo intervistava nel 2012, per provare a sintetizzare la storia centenaria del suo negozio in via Tagliamento 1, zona San Luigi, quartiere Corvetto. Oggi il Cambieri non c’è più, mentre la cartoleria e tipografia Bonvini è in piena attività.
Alla fine il suo desiderio si è realizzato. A sbucare all’orizzonte sono stati sei amici, ora soci, che quando hanno visto l’insegna ricoperta e la saracinesca abbassata non hanno voluto cedere al potere dell’oblio. «Siamo arrivati che il posto era già chiuso, ma il signor Cambieri-Bonvini era ancora qui. Il suo contratto sarebbe scaduto nel giro di 20 giorni». Quando sono entrati, hanno trovato una massa polverosa, strati di oggetti e sedimenti di memoria. Avevano colto la ricchezza del posto, ma non avevano la più pallida idea di cosa combinarci.
Il loro è stato un incontro fortuito, ma è diventato subito amore a prima vista, perché hanno capito che lì avrebbero potuto costruire dei percorsi che intrecciassero i loro interessi. «Parte di noi aveva storie comuni, di amicizia o professionali». A parlare è Roberto Di Puma, presidente della cordata che ha salvato il negozio “Fratelli Bonvini”. «In particolare – prosegue – c’è un gruppo che lavorava in Moleskin, io, Maria, Francesco e Luca. Ci siamo messi insieme perché ci conosciamo, perché abbiamo delle passioni condivise e perché dentro queste ci stava anche un “oggetto” di questo genere».
«Io faccio un altro mestiere, quelli che oggi sono coinvolti avevano altre occupazioni, però ci siamo subito trovati d’accordo su un punto: “Evitiamo che entrino con la ruspa e buttino via tutto”. C’erano dei progetti, anche l’Università Statale di Milano voleva recuperare macchine e caratteri, però era tutto molto farraginoso. Così io e i miei soci ci siamo detti: “Paghiamo l’affitto!” Abbiamo iniziato a farlo per tre mesi, poi per sei, poi per un anno”. Alla fine ci siamo decisi a investire in un restauro conservativo, in particolare dei due ambienti principali, quello della cartoleria e quello della tipografia, entrambi preservati totalmente», racconta con orgoglio e anche un po’ di emozione, guardandosi intorno.
Questo era un posto povero, era una cartoleria che serviva un quartiere basato sui bisogni dell’industria e della logistica cresciuta attorno allo Scalo Romana, uffici e abitazioni popolari. Dentro non c’era niente di strettamente “prezioso”, se non strati multipli di memoria conservati negli oggetti e nei mobili. Il patrimonio non si limitava al solo contenuto, ma anche a tutti i significati che si sono accumulati nel corso del tempo. Comprese le relazioni umane che i Bonvini avevano tessuto nel quartiere. I sei soci avrebbero potuto trasformare la tipografia in un museo, ma l’operazione si sarebbe svuotata del significato più profondo.
La vera sfida è quella di far rivivere il passato nell’oggi. «Dopo la salvaguardia abbiamo iniziato a inseguire la contemporaneità, che stiamo ancora cercando, perché attualità equivale anche a sostenibilità e questi sono luoghi bisognosi di molte risorse», sorride come se stesse parlando di un figlio che va all’università. Sottraggono, vero, ma restituiscono anche tanto: sono stati creati quattro posti di lavoro, per esempio, e poi il negozio è tornato ad essere un punto di riferimento per le persone che vivono in zona.
«Noi, fin da subito, non volevamo diventare una cartoleria scolastica perché è un mondo iper competitivo e perché avrebbe tradito la storia di questo posto, che è più complessa di quanto possa sembrare. Qua dentro c’è sempre stata una discreta inventiva, il Bonvini aveva depositato parecchi brevetti».
Conservare i diversi livelli di storia e di memoria e riproporli con la sensibilità di oggi ha fatto emergere la possibilità di creare una realtà dinamica capace di essere interessante non solo per il quartiere ma per tutta la città e per i visitatori di Milano.
Organizzare corsi di tipografia, di rilegatura, di acquerello anche nei nuovi spazi acquisiti a fianco e sopra il negozio originale, ospitare artisti in residenza in Atelier e realizzare attività con le Associazioni che si occupano della dispersione scolastica sono alcuni dei modi che “Fratelli Bonvini” sta praticando per costruire il proprio futuro. «C’è un pubblico del quartiere, ma c’è anche un pubblico che ci ha preso come riferimento, cogliendo l’importanza sociale di questo posto. Ci sono molti giovani che vengono qui perché curiosi nei confronti delle tecniche di stampa analogiche, che hanno un ruolo nel mondo dell’arte, della comunicazione e anche dell’attivismo. Vengono tantissimi stranieri, quasi il 20% dei nostri clienti lo sono, anche perché il negozio ha iniziato ad essere segnalato in diverse guide e articoli sulla città di Milano».
Nessuno di loro abita in zona, ma tutti insieme si sono trovati un po’ per caso a occuparsi del Corvetto. E facendolo, hanno iniziato a immaginare la cartoleria come un luogo in cui potessero nascere « delle nuove vocazioni per il quartiere. Vocazioni costruite intorno al fare artigianale, alla scrittura, alla stampa, alla lettura, un pezzetto di vocazione da costruire nell’oggi», spiega Roberto. Anche se non è del quartiere lui se lo ricorda com’era Corso Lodi qualche anno fa: «Un ammasso di parcheggi. Questa nuova sistemazione, con in mezzo la pista ciclabile e il marciapiede, ha trasformato la via da arteria di movimento in arteria di comunicazione. Noi la chiamiamo la “rambla di corso Lodi” e se tale deve essere, facciamo in modo che unisca anche i mondi che stanno alle sue estremità: Porta Romana e piazzale Lodi dove si ferma la concentrazione di studenti, ristoranti e negozietti, e piazzale Corvetto che è una scommessa che vale la pena fare».
«Qui sta la vera sfida, dare qualità senza gentrificare, senza spostare la persone che vivono qui. Partire anche dalla valorizzazione dei negozi e delle attività di quartiere. Ci piacerebbe essere parte di questo processo e contribuire a far vivere Corso Lodi come un ponte che collega mondi e propone esperienze».